La Turchia, terra con radici culturali che affondano nell’Antica Grecia, nella Persia e negli imperi romano, bizantino e ottomano, situata ai confini tra il mondo europeo e il complesso medio oriente, è da sempre un ponte naturale tra l’Europa e l’Asia. Membro della NATO, ma con un occhio che guarda a Mosca, la Turchia è una nazione a cavallo tra l’oriente e l’occidente. Una posizione che in chiave geopolitica la rende altamente
strategica sia per Washington che per Mosca.

Il fascino del paese che fu moderatamente islamico, non può non passare dall’incantevole e cosmopolita Istanbul, affacciata sullo stretto del Bosforo, che ospita tra le altre la Santa Sofia e l’imponente Moschea Blu.
Il paese dialoga, o almeno poteva dialogare, col Medio Oriente e allo stesso tempo avvicinarsi alla laicità dell’Occidente. Nel 2005 l’ingresso nella UE sembrava scontato ed imminente, l’allora presidente della Commissione, Jose Manuel Barroso, ne era entusiasta, e c’era la spinta e l’appoggio dei grandi tra cui gli Stati Uniti. Poi tutto rallentò e naufragò.
Da allora sono cresciute le tensioni con la Turchia e in particolare con la loro politica estera: dalla questione cipriota a causa della disputa sullo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque di Cipro, dove l’Unione
europea ha imposto delle sanzioni alla Turchia, alle violazioni dei diritti umani ai curdi, dove si è espresso anche il Tribunale dei popoli nel 2018, l’alleanza di Erdogan con i fratelli musulmani, la raffica di arresti e la restrizione delle libertà civili dopo il fallito golpe del 2016, all’ultimo screzio con gli Usa sull’equipaggiamento dei missili
S-400 di provenienza russa.

Bertil Videt / CC BY-SA

La vicenda dei missili è un raro caso in cui un paese della Nato sfida le minacce di sanzioni degli Stati Uniti cooperando con la Russia, soprattutto dopo che all’inizio del 2019 Trump aveva già minacciato di distruggere
l’economia della Turchia se avessero attaccato le milizie curde in Siria, milizie foraggiate e armate dagli americani nella guerra contro gli jihadisti islamici. Già la Turchia è stata sotto i riflettori per aver aperto l’autostrada del jihadismo, in cui faceva transitare migliaia di futuri miliziani del Califfato, e dopo aver finanziato le casse dello Stato islamico comprandone per anni il petrolio.

In luglio i primi componenti del sistema di difesa aerea russo S400 sono stati consegnati alla Turchia. L’acquisto dei sistemi antiaerei russi da parte di Ankara potrebbe provocare la reazione degli Stati Uniti e creare una crisi
senza precedenti nell’alleanza atlantica. Putin sarebbe ben felice di assistere a una spaccatura nell’Alleanza atlantica, per di più provocata dalla tecnologia militare russa.

Ma negli ultimi tempi, pende sulla Turchia il ridimensionamento del consenso verso Erdogan e il suo partito, uscito sconfitto dalle elezioni amministrative. Lo stesso presidente pensa che insistere nel rapporto con la
Russia sia fondamentale per le relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente, infatti gli Stati Uniti difficilmente possono rompere con l’alleato turco sapendo benissimo che il vuoto lasciato sarebbe probabilmente colmato
da Mosca. Ma dall’altra parte Ankara può davvero incrinare i rapporti con gli Stati Uniti, e di conseguenza con la UE, e fidarsi della Russia, vista la difficile relazione che hanno da due secoli?

La storia insegna che la sicurezza dei paesi non dipende dalla potenza militare, ma dal tasso di felicità interna e dai buoni rapporti con i vicini. A causa della sua politica neoottomana, oggi Ankara è in conflitto con tutti i
paesi della regione. Nelle tensioni con Cipro nessuno ha sostenuto la Turchia. Invece di riconsiderare le proprie scelte, il governo sostiene che i turchi sono circondati da nemici e che quindi devono avere armi più potenti.
Ma la Turchia non ha bisogno né degli S400 né degli F35. L’unica cosa di cui ha davvero bisogno è garantire la
pace interna con la democrazia e quella regionale opponendosi alle mire imperialistiche di Stati Uniti e Russia.

Autore – Mauro Libardoni