Incastonata tra l’altopiano carsico e il Mare Adriatico, Trieste è un crocevia di culture, lingue e religioni, che si riflettono in una variopinta proposta culinaria, derivante dalle tradizioni delle genti che qui si sono incontrate e stabilite per diversi secoli.

Grazie alla sua posizione geografica, nel XVIII secolo assume il ruolo di porto principale dell’Impero Austriaco, decretandone la fortuna: inizia, infatti, un lungo periodo di prosperità, durante il quale si creano la maggior parte delle odierne tradizioni culinarie.

Una delle merci che caratterizzano i traffici portuali è il caffè e proprio da questo parte la giornata di ogni triestino che si rispetti. Ci sono molti modi di servire il caffè a Trieste, ma il più caratteristico di questi, che incarna lo spirito stesso della triestinità, è sicuramente il Capo in B: si tratta di un caffè macchiato servito in bicchiere di vetro.

Nelle fredde giornate invernali, sferzate dalla bora, si erge prepotente la necessità di un piatto caldo, che riempia la pancia, senza svuotare troppo il portafogli: la “caldaia” triestina ci offre una serie di pietanze perfette a questo scopo.

Precisiamo subito: la caldaia triestina non scalda i termosifoni, ma è un brodo nel quale vengono lessati vari tagli di carne e salsicce fra le quali le più diffuse sono, senza dubbio, le vienna e le cragno. Le prime sono semplicemente i ben noti wurstel, le seconde sono le salsicce nazionali slovene, originarie della città di Kranj, dalla quale prendono il nome. Ma, se si vuole un piatto veramente tipico ed unico, è necessario ordinare la porcina (si legge porzìna), un lesso di carne di maiale, generalmente tagli della coppa o della spalla.

Il contorno è, rigorosamente, composto da due prelibatezze tipiche della regione carsica: le patate in tecia e i crauti. Questi ultimi sono uno dei lasciti della tradizione austriaca, mentre le patate in tecia sono una vera e propria prelibatezza che, sebbene sia presente nella maggior parte dei territori dell’ex litorale Austriaco, a Trieste assume una dimensione quasi leggendaria, con gare dedicate e un nutrito numero di estimatori.

Le patate vengono preparate cucinandole in una “tecia” (un tegame), con un soffritto di cipolla, a volte nel burro o nello strutto: una volta cotte, le patate vengono mescolate e schiacciate, in modo da creare una poltiglia irregolare. In molte ricette vengono aggiunti pezzi di pancetta o altre carni affumicate.

Il piatto di carni bollite, tuttavia, non può dirsi completo se non viene accompagnato da kren, cioè radice di rafano grattugiata, e senape.

Dal maiale si ottiene un’altra gemma della produzione culinaria locale: il prosciutto cotto in crosta, cucinato avvolto in un impasto di pane. Viene servito caldo, sempre accompagnato da senape e kren e si può consumare mangiandone una fetta assieme ad un pezzo della sua crosta.

L’anima mitteleuropea emerge sicura anche in un altro piatto a base di carne: il gulash, in triestino golas.

Ma non aspettatevi una minestra come l’originale ungherese: si tratta di uno spezzatino di manzo, cotto su un soffritto di cipolla, TANTA cipolla, condito e colorato da un’abbondante dose di paprika. Anche in questo caso, le ricette casalinghe ci regalano alcune varianti, più o meno piccanti.

Il gulash, oltre ad essere un secondo piatto molto saporito, viene usato come sugo per accompagnare vari primi piatti: gnocchi di pane, gnocchi di patate e la classica polenta.

Ma, se tutti questi piatti tradiscono un’origine austro-ungarica, l’anima balcanica esplode violentemente con uno dei piatti in assoluto più consumati, soprattutto nelle grigliate primaverili: i civa.

Di origine serba, i cevapcici sono delle salsiccette di carne macinata, molto saporita e speziata, cotti alla griglia e serviti con cipolla cruda e ajvar, una salsa a base di peperoni.

La presenza di una minoranza autoctona di lingua slovena ha permesso a molti piatti della vicina repubblica di insediarsi nella cucina tradizionale triestina e la ljubljanska ne è il simbolo: si tratta di una fetta di lonza di maiale, impanata e fritta, ripiena di formaggio e prosciutto cotto. Gli ingredienti sono un omaggio all’antico Impero asburgico, poiché tale piatto nacque in onore del Principe ereditario, che voleva una pietanza che rappresentasse tutti i territori del suo Impero.

Tuttavia, se la carne non fa per voi, potete sempre assaggiare una minestra, anch’essa proveniente dalla tradizione slovena: la jota, una minestra di fagioli, crauti e patate o la minestra de bobici, preparata con mais, fagioli e patate.

Se vi starete chiedendo come mai non abbiamo ancora parlato di piatti di pesce, in una città affacciata sul mare, eccovi accontentati: la cucina di pesce è pesantemente ispirata a quella istro-veneta, dalla quale pesca praticamente tutte le ricette.

Largo quindi agli scampi alla busara, con sugo di pomodoro cipolla e aglio sfumato con vino bianco, i pedoci (cozze) scotadeo, serviti bollenti, tanto da “scottare le dita”, conditi con aglio, olio, prezzemolo e sfumati nel vino bianco, sardoni in savor, la versione triestina delle sarde in saor venete e molti altri.

Passando al campo dei dolci, invece, abbiamo delle specialità prettamente locali, tipiche del periodo pasquale: il presnitz, una sfoglia arrotolata a forma di chiocciolina, con un ripieno di pinoli, nocciole, noci, uva sultanina, scorza di limone e arancia, rum e cacao; la pinza, una specie di pan brioche aromatizzato delicatamente da scorze di agrumi e rum.

Nel periodo autunnale ed, in particolare, nel “giorno dei morti”, è tradizione consumare le fave, delle palline ottenute mescolando farina di mandorle, zucchero e albume. Il nome trae origine dal legume che, anticamente, si riteneva potesse permettere di entrare in contatto con l’aldilà, grazie alle profonde radici. Le fave triestine ricordano il significato tradizionale del legume, essendo colorate con tre tonalità che identificano le fasi del ciclo vitale: bianco per la nascita, rosa per la vita, marrone per la morte. Le tre colorazioni derivano dalle tre diverse aromatizzazioni: vaniglia, rosa e cacao.

A completare il bouquet di dolci si aggiunge anche la putizza, che, sebbene di origine slovena, è diventata ormai tipica della città: si tratta di un altro dolce di sfoglia arrotolata, farcita con uva passa, noci tostate, frutta secca.

Se vi trovaste a passare alcuni giorni a Trieste, oltre alle proposte culinarie, è d’obbligo una tappa in una Osmiza: tradizionalmente, gli agricoltori del Carso potevano aprire un locale temporaneo, dove poter vendere il vino ed altri alimenti, soprattutto salumi ed insaccati, di loro produzione, per un tempo di 8 giorni. Dallo sloveno “osem” che vuol dire otto, è derivato il nome di questi ristori agricoli, dove i triestini si riversano, specie nelle giornate primaverili, per consumare salumi e vino, fuori dal grigiore della città: qui finalmente i triestini tirano fuori la loro anima festaiola e mettono mano alle chitarre per passare la giornata in compagnia degli amici.

Questa è la cucina triestina: un vortice di sapori, colori e tradizioni!

Autore – Marco Basilisco e Monika Lucas